DVD "Marciavamo con l'anima in spalla. 
I partigiani legnanesi raccontano..."

 

 

pubblicato INTEGRALMENTE su youtube al link: https://youtu.be/kg50JUbViGM

 


 

Le donne nella Resistenza

 

Ada Gobetti, moglie di Piero: “Nella Resistenza la donna fu presente ovunque: sul campo di battaglia come sul luogo di lavoro, nel chiuso della prigione come nella piazza o nell’intimità della casa. Non vi fu attività, lotta, organizzazione, collaborazione, a cui ella non partecipasse: come una spola in continuo movimento costruiva e teneva insieme, muovendo instancabile, il tessuto sotterraneo della guerra partigiana”

 

 


Il contributo numerico delle donne alla Liberazione è impressionante: 

-      35mila partigiane combattenti,

-      20mila patriote

-      decine di migliaia di aderenti ai GDD (Gruppi di Difesa della Donna)

-      623 morte in combattimento

-      1500 deportate nei lager

-      4500 arrestate, torturate e violentate.

 

Le operaie negli scioperi del ’43 e ’44: una palestra per la Resistenza

Prima ancora che nasca la Resistenza le donne sono protagoniste degli scioperi del 1943.

Il fascismo aveva esaltato il ruolo solo domestico della donna ma, ora che la guerra sarebbe continuata a lungo, le donne sono importanti nelle fabbriche e nei servizi pubblici.

A causa della partenza familiari maschi per la guerra, dei bombardamenti (60mila civili morti sotto le macerie), degli sfollamenti e dello sfruttamento in fabbrica (sono pagate a parità di mansioni la metà degli uomini, subendo anche il lavoro notturno e turni di 12 ore l’esasperazione nel marzo del ’43 sta per esplodere:

“Si preparava lo sciopero contro la guerra, per i prezzi, per i cottimi individuali, contro le dodici ore, perché eravamo stufe e basta”, dice Anna Fenoglio, partigiana.

Negli scioperi del ’44 la presenza femminile è forte. Spesso sono le donne a indurre gli uomini a scioperare.

Nel novembre ’43 nascono a Milano i “Gruppi di Difesa della Donna per l’assistenza ai combattenti della libertà” per iniziativa di tre donne del Pci: Rina Picolato, Giovanna Barcellona e Lina Fibbi. Con loro anche Ada Gobetti per il Pd’A (GL) e Lina Merlin per il Psi. Nasce il giornale “Noi donne”.

Il lavoro dei GDD consisteva nell’assistenza in varie forme ai partigiani, sussidi in denaro o assistenza economica alle famiglie dei deportati o dei combattenti, ma con l’affermarsi della Resistenza le donne ricoprono più ruoli: staffette, infermiere, vivandiere, cucitrici, ricercatrici di denaro, stampatrici di giornali, amministratrici del denaro oltre a nascondere gli uomini per evitare il lavoro coatto oppure l’arruolamento nelle milizie di Salò. Le donne non hanno una particolare specializzazione, si occupano semplicemente di tutto anche di combattere.

 

La Resistenza civile

** Staffette

Il compito più caratteristico svolto dalle donne nella Resistenza è stato quello delle staffette e fu l’unico ufficialmente riconosciuto fino a diventare leggenda: non è un ruolo tradizionale che le donne possono svolgere tra le mura di casa (cura dei feriti, confezione degli abiti…) ma non è neppure la lotta armata.

In ogni caso le staffette fanno parte della Resistenza organizzata.

Il nome staffette deriva probabilmente dai numerosi passaggi di mano dei messaggi, delle armi o quant’altro per evitare, se catturate, di rivelare quello che sapevano. Il loro numero fu molto alto. A Firenze ne furono censite circa 400.

La loro attività sarebbe stata impensabile prima della guerra perché presupponeva una notevole possibilità di movimento sia per le nubili e per le sposate. I continui movimenti a piedi o in bicicletta erano giustificati agli occhi di genitori e dei vicini di casa con la necessità di trovare qualcosa da mangiare in campagna.

Si usa tutto per nascondere la “roba”: giarrettiere, reggiseni, calze, pancere.

 

Il loro compito era anche spiare i movimenti di tedeschi e fascisti, tenere i collegamenti tra bande e i partigiani operanti in città. Portavano di tutto: cibo, vestiario, medicine, armi, ricetrasmittenti e soprattutto messaggi.

Senza di loro non si sarebbe fatto nulla: né ordini, né coordinamento, né armi, né stampa.

 

Alcune sono quasi bambine come Oriana Fallaci che a 13 anni faceva da staffetta perché il padre è partigiano: portava copie di giornali, accompagnava prigionieri anglo-americani verso le linee alleate. Non aveva paura, la paura è degli adulti.

La più giovane staffetta fucilata dai tedeschi fu Ada Marongiu, aveva 18 anni ed era del gruppo di GL in val Maira.

** Fattorine

Sono donne che organizzano e diffondono la stampa clandestina.

Il giornale più diffuso è “Noi donne” ma sono tanti i fogli che nascono un po’ ovunque. Raramente le donne scrivono. Il loro compito è raccogliere i testi scritti dai partigiani, portarli in tipografia, ritirare giornali, fogli, volantini, e soprattutto distribuirli: porta a porta la mattina presto, dai predelli del tram, nelle piazze e nelle stazioni, sulle panchine dei parchi, nei mercati (magari con comizi volanti), nelle fabbriche (spogliatoi, sala mensa).

Nelle memorie le donne tendono a minimizzare i pericoli e a valorizzare le componenti di astuzia legati alla loro azione. Minimi sono anche i riferimenti ideologici della loro azione. Prevale l’azione e la soddisfazione del fare bene il loro compito.

** Infermiere

Le donne assistono i partigiani feriti e i malati o negli ospedali pubblici o in centri di pronto soccorso creati da loro.

Renata Viganò segue il marito e il figlio nella Resistenza e dirige il servizio sanitario della Brigata che operava nelle Valli di Comacchio.

** Cura dei morti

I funerali sono sempre preparati dalle donne spesso sfidando la volontà delle autorità fasciste che vietano le esequie pubbliche.

** Mercato nero

Ricorrere al mercato nero era diventa un’attività fondamentale delle donne a difesa della propria famiglia. Ma ora è necessario ricorrere al mercato nero per nascondere un rifugiato in casa propria o sfamare i combattenti in montagna.

** Ricerca del denaro

Un’altra attività importante era l’amministrazione e la ricerca del denaro necessario per la Resistenza: era necessario convincere borghesi e industriali con la promessa che le operaie avrebbero difeso la fabbrica alla fine della guerra.

 

La Resistenza armata

Le Partigiane combattenti

Furono 35 mila, forse poche rispetto ai 235mila partigiani combattenti, perché la differenza tra i due sessi era fondamentale: gli uomini hanno conosciuto l’addestramento e la vita militare e quindi per loro fu quasi normale continuare a combattere nelle formazioni partigiane.

Poi è necessario dire che se per molti maschi la lotta partigiana fu inevitabile (evitare i bandi o l’arresto in fabbrica), per le donne fu possibile scegliere o meno di combattere.

Inoltre bisogna riconoscere che era difficile per una donna e per i familiari accettare di far parte di una banda maschile, sia per le nubili e le sposate.

Alcune diventano combattenti per seguire il marito, il fratello, il fidanzato. In altri casi raggiungere la banda partigiana voleva dire evitare il probabile arresto.

Da notare che per molte donne e uomini è la prima volta in cui vivono accanto a persone dell’altro sesso.

Una ragazza raggiunge la II Brigata Beltrami. Dopo qualche giorno dice: “Non sono venuta qui per cercare un innamorato: io sono qui per combattere e rimango solo se mi date un’arma e mi mettete di guardia e alle azioni. In più farò l’infermiera. Se siete d’accordo resto, se non me ne vado”.

Un’altra disse: “Curavo i miei compagni, ma non li servivo. Se uno voleva un panino se lo faceva. Io non ero andata lì per lavare i piatti”.

Una volta accolte è imperante la parità: le donne hanno gli stessi compiti degli uomini: le guardie, la pulizia delle armi, i combattimenti. E’ desiderio di giustizia e volontà di far cessare la guerra al più presto.

Il reclutamento: staffette o combattenti avviene all’interno dei GDD.

Lea Baravalle“Io voglio andare a fare la partigiana. Ma perché vuoi andare? Ma proprio perché ho perso i miei fratelli (due fratelli arrestati), proprio perché è tutta la vita che soffriamo e tutto questo si sente dire che è ingiustizia del fascismo… io voglio dare il mio contributo”.

Nonostante tutto le resistenze maschili sono notevoli. In Val d’Ossola, durante i 40 giorni della repubblica, votano solo i capifamiglia, le donne no. Solo Gisella Floreanini diventa Commissario.

** Donne torturate

Quante donne vennero torturate e violentate? Sicuramente tante anche se molte finita la guerra preferirono non parlarne. Si può a ragione parlare di Resistenza sofferta e taciuta.

Le ragazze dei GAP/Gruppi azione patriottica

I Gruppi azione patriottica erano nati subito dopo l’8 settembre del ’43 e dipendevano dalle Brigate Garibaldi.

Si trattava di piccoli nuclei di uomini e donne (ca. 5 persone) che colpivano in città fascisti e nazisti sparando contro obiettivi specifici oppure contro i soldati tedeschi.

Tra le donne dei GAP si ricorda Carla Capponi e Maria Teresa Regard nei GAP di Roma, Irma Bandiera nel GAP di Bologna, Onorina Brambilla e Tosca Bucarelli la quale, catturata dopo aver fatto esplodere una bomba a Firenze, non rivelò quello che sapeva e morì sotto tortura.

La deportazione femminile nei lager nazisti

Furono poco meno di 24mila i Triangoli Rossi deportati nei lager nazisti. Tra di loro 1500 erano donne.

Si trattava di partigiani, sindacalisti, operai in sciopero, antifascisti, collaboratori veri o presunti della Resistenza. La mortalità fu del 40 per cento: ossia 10mila persone.

Le donne deportate finirono in prevalenza a Ravensbruck e vennero utilizzate nelle fabbriche belliche e in mansioni pesanti e pericolose, come se fossero uomini. La mortalità femminile fu di 85 su 1240 deportate.

Un numero maggiore di donne ebree furono deportate ad Auschwitz (totale 8mila ebrei).

 

 

 

Le testimonianze delle Legnanesi

 

   VIDEO   La lotta delle donne

 

 

Francesca Mainini

 

«Io e la moglie di questo qua [Bruno Lonati, nome di battaglia “Valeri” e in seguito “Giacomo”], facevamo le bombe, lì in casa mia FACEVAMO LE BOMBE. E allora io e quest’Alba [Lonati]qui, che era la moglie di questo Bruno [Lonati] qua, andavamo a metterle giù.

Per esempio quando al Mantegazza (sa dov’è il Mantegazza?), quando è andato per aria il Mantegazza, abbiamo portato là noi le bombe. E c’era là il Samuele [Turconi] a prenderle.

Senza paura. Non sapevo cos’era la paura. Non pensavo neanche!

Pensavo a mio marito che era in guerra, magari non tornava più[1]…»

 

 

Iole e Ferdinando Legnani

 

Iole - «Non conoscevo il pericolo! Perchè quante volte con la borsa della spesa della mia nonna mi davano…

Una volta ho passato… dal Corso Garibaldi, sono venuta giù dalla Via Gigante, ho fatto il Corso Garibaldi con una borsa della spesa fatta da mia nonna, grande così, me la ricordo, di pezza, piena di rivoltelle. E l’ho portata ai giardinetti.

Ma io dico… Legnano… c’era il Corso Garibaldi e la Piazza San Magno che era piena di fascisti. Io in bicicletta. Se soltanto prendevo dentro, chè c’eran giù quelle mattonelle, che cadevo… mi m’andavan rivultei dapartütu, né…[2]

Oggi dico “Madonna!”. Quando mi viene in mente. “Ma io… ero io quella là? Non lo so…”»

 

Ferdinando Legnani è a Cairo Montenotte. Per attuare il suo progetto di fuga gli occorrono abiti borghesi.

Iole si incarica di portarglieli e con i suoi incoscienti sedici anni inizia un viaggio pieno di insidie che la conduce da Legnano al piccolo centro savonese.

 

Iole - «Lui ha chiesto aiuto a casa, di portargli la valigia con i vestiti borghesi, le scarpe e tutto.

Il suo papà ha ricevuto quell’ordine lì, di preparargli la valigia. E chi doveva portargli la valigia? Nessuno abbiamo trovato, di portargli la valigia!

No, siccome ero sola – il papà di lui non è venuto perché sapeva che ci sono le montagne – e allora c’era una signora che abitava vicino a me, giovane, aveva 28 anni, 29, la Giustina, e allora questa dice “No, ci vado io con lei, tanto io sono a casa, non lavoro…”

E allora siamo partite tutte e due. Siamo andate vicino a Palazzo Italia, c’è passato un camion, siamo salite su questo camion, siamo andate a Milano. A Milano un altro camion e via. Siamo arrivate fino a Savona.»

Ferdinando - «Funzionavano i camion. I treni… [no]»

Iole - «Quando siamo arrivate a Savona, pensavo di trovare un altro camion che mi portasse su, a Savona. Quello là mi ha detto “No, signora, qui non va su niente perché di qua ci sono i fascisti e di là ci sono i partigiani. Anzi, consigliamo di non andar su neanche a piedi!”

Eh, ma io ormai ero già lì, che cosa dovevo fare?

Allora c’ho guardato a questa signora “Cosa dici? Dobbiamo andare su o no?”

“Eh, siamo già qui, andiamo! Facciamo finta di niente… andiamo…”

Con la mia valigia. A piedi.»

Ferdinando - «Con dentro i vestiti borghesi. Sa ga la fasevan verbi[3]…»

Iole – Eh, su… tutto a piedi, tutto a tornanti, su, su, su… Ogni tanto ci fermavamo su muretti, sedute.

Eravamo là ferme tutte e due, arriva una squadra di fascisti. Ah, Madonna! Tutti armati. Mi hanno fatto una paura enorme!

E questi qui mi fanno. “Dove andate?”

“Eh, vado a Cairo Montenotte”

E mi dicono: “Eh, ma a Cairo Montenotte… cosa andate a fare?”

“Oh, devo andare a trovare una famiglia che conosco. Devo star su un po’ di giorni insieme.”

Non ci hanno creduto. Mi ha preso. Tutti quanti gridavano come matti. Mi hanno portato al comando tedesco.

Al comando tedesco ho cominciato a tremare. Lì ho avuto una paura enorme. Però entro in quest’ufficio…

(Disgraziati questi fascisti! Sono italiana, ti dico che vado… tutt’al più… se tu  aprivi la valigia capivi che c’era qualcosa di… ma tu non hai aperto la valigia! Mi hai trattata male, eh! E mi hai portata al comando tedesco!)

E questo qui, combinazione, abbiamo trovato un ufficiale tedesco che io non lo so…

Io seduta qui, lei seduta di là [alla destra di Iole], e il tedesco era lì [di fronte ad entrambe].

Al primo momento mi sembrava un po’ burbero, eh. E mi fa. “Cosa fate qui voi?”

“Eh, vado a trovare il mio fidanzato…” M’è venuto in mente il fidanzato, mi è venuto fuori spontaneo. “Vado a trovare il mio fidanzato che si trova a San Marco Caio Montenotte”.

Questo mi guarda, sbarra gli occhi e fa “Cosa dici??? Vieni qui, fino a qui, per trovare il fidanzato???!!!” (Proprio così, parlava bene l’italiano)

Gh'ò dì[4] “Eh, sì. E’ venuto su… non m’ha scritto più… non so più dov’è…” e infatti era vero che non scriveva più, non si sapeva più niente.

E questo… si vede che la mia spontaneità che ho avuto quel momento, quel tedesco è rimasto lì. Mi fa: “Guarda io non so, non ho mai visto una cosa del genere! Non fare più una cosa del genere perché non si può!” Ero giovane, molto giovane.

E questo qua che cosa fa? Prende il telefono. “Dove si trova il tuo fidanzato?” mi dice.

“Eh, su alla San Marco…”»

Ferdinando - «Ronchetta»

Iole - «Dicevamo “Cairo Montenotte”»

Ferdinando - «Era una frazione di Cairo Montenotte»

Iole - «Prende il telefonoO’ dì “Madona, cheschì sa’l fa cunt ul telefun?” A me valisa in mes di gambi, sempar[5]

E lì ha parlato in tedesco. Però ho capito che al momento diceva “No…” è stato in attesa un po’ questo telefono. Poi fa, mette giù e fa “Va bene, va bene… l’ho trovato il tuo fidanzato! L’ho trovato!”

Prende la camionetta, due Tedeschi, ci fa caricare tutte e due, e via! Mi hanno portato su loro, alla caserma, alla San Marco! Con la valigia, sempre!»

 

 

Giuseppina Marcora

 

«Al sabato mezzogiorno uscivo, prendevo le Nord, andavo a Laveno. A Saronno però mi fermavo, perché c’era la sorella di Chiodini che mi aspettava, che lei veniva da Castano con le Nord, ecco, e portava quello che doveva portar su. Una pistola per ciascuno, perlomeno, l’avevamo. E andavamo a Laveno.

A Laveno incominciava la tragedia.

Se andavamo, prendevamo il battello. Arrivavamo a Intra.

A Intra, se andava bene, con dei segnali, eccetera  -c’era uno all’imbarcadero, nascosto, che ci indicava cosa dovevamo fare - e allora dovevamo andare a piedi. Dall’imbarcadero raggiungere Piancavallone. Ora che arrivavamo su era mezzanotte passata.

Io avevo un cappotto di loden grigio che era una meraviglia. M’aveva messo un bel collo così tutto scozzese, rosso e nero, e una bella paramontura alle tasche. Le mie tasche erano lunghe come un sacco della pattumiera!

Arriviamo a Meina: di qui [a sinistra] c’è l’Hotel Sempione, e di qui [a destra] c’è il Verbano, lì [accanto all’Hotel Sempione] c’è il posto di blocco. Lì c’era la X Mas.

Arrivo e mi fermano… devo scendere… Dice “Dove va? Cos’ha in questo pacco? Mi faccia vedere: cos’ha qui?”

Dico “Guardi… se volete… io sto andando ad Arona a trovare la mia nonna che è ricoverata ad Arona…” inventata al momento, eh! “Se volete, vado… c’ho dentro due biscotti…” Perché era proibito anche portare i biscotti: “Dove hai preso al farina?”

“La farina… li ho fatti io… E se no… vado dalla mia nonna…”

“Stia attenta, però, eh… ciao…”

“Ciao…”[6]

Quando ho fatto scappare mio fratello..! Ho chiuso dentro tutti loro, eh..!

Era il Venerdi Santo del ’44. Arrivano. Carabinieri, fascisti.

Allora, beh, poche storie. Lo fanno scendere. Lui era in pigiama, gli han fatto mettere i pantaloni e basta, a piedi scalzi. Scende le scale, arriva verso l’anticamera (c’era un’anticamera): davanti c’è mio fratello, di dietro ci sono io…

Allora, davanti c’è l’Albertino e scende. Come scende… brammm col catenaccio! Li ho chiusi dentro tutti!

Nessuno ha pensato che la casa era piantonata.

Nel giardino c’era una rete metallica che dava sul canale Villoresi. Lui ha corso a piedi nudi e salta dentro nel canale Villoresi che era in sücia[7]. E’ arrivato dove è arrivato con tutti i piedi che sanguinavano.

E prima d’andar via hanno detto “Ah, beh…” tra di loro “Tanto domani mattina lo troviamo o al cimitero o in ospedale: andiamo!”»

 

 

Giovanni Marcora, nome di battaglia Albertino[8], sarà uno dei protagonisti della politica italiana del dopoguerra. Dirigente della Democrazia Cristiana ed esperto di questioni economiche, verrà eletto senatore nel 1968 e fra gli anni ’70 e i primi anni ’80 guiderà il Ministero dell’Agricoltura e poi quello dell’Industria.

 

 

Irene Dormelletti

 

«Mi dicevano: “Senti, guarda che c’è da portare alla Casina del Mina, che era a Legnano, e devi portar là la tale persona. Guarda che ti troverà sulla strada, ti darà la parola d’ordine, e tu gli rispondi e lo porti dove devi portarlo.” E io lo portavo.

Allora lo portavo lì in quella cascina lì, c’era gente che conoscevo, e li accompagnavo e poi ritornavo indietro. C’era un altro che mi aspettava in strada. Non mi hanno mai lasciata da sola! Mai!»

 



[1] Tratto da http://www.legnanonews.com/news/1/8549/

Abbiamo tra noi Francesca Mainini e Bruno Giovanni Lonati. Nel periodo clandestino le loro vite si incrociano. Il Lonati lavora alla Franco Tosi ed è attivo nella Resistenza. E’ lui che convince Francesca ad entrare nella lotta clandestina. “Aiuta anche tu la Resistenza, la convinceva Lonati, e vedrai che tuo marito tornerà a casa prima“ Ricercato dalle brigate nere, Bruno si rifugia con il figlio e la moglie Alba in casa di Francesca Mainini in via Calatafimi al 4, Vengono nascosti in soffitta. Anche la Mainini ha un figlio ed il marito è al fronte. La casa di Francesca di sera diventa un centro di incontro dei vari gruppi partigiani che agiscono nella zona. Lonati, col nome di battaglia “Valeri” è per un certo periodo anche commissario politico della 101°. Brigata Garibaldi. E’ in contatto coi Venegoni, Arno Covini, Samuele Turconi, Luciano Colombo ed altri, partecipa allo scontro armato qui alla Canazza. Opera in tutta la Valle Olona.

Sono la Francesca Mainini con la moglie di Lonati Alba a portare l’esplosivo nelle borse della spesa ed a nasconderlo tra i cespugli del monumento ad Alberto da Giussano. Esplosivo che poi servirà ai partigiani Lonati e Turconi per l’attentato al Mantegazza, un ristorante vicino alla stazione allora ritrovo di tedeschi e di fascisti.

[2] Mi sarebbero andate rivoltelle dappertutto, neh…

[3] Se gliela facevano aprire…

[4] Gli ho detto

[5] Ho detto: “Madonna, questo qui cosa fa con il telefono?” La mia valigia in mezzo alle gambe, sempre…

[6] Tratto da http://www.anpilegnano.it/giuseppinamarcora.htm

«Giovanni, militare di leva a Civitavecchia, era riuscito in modo avventuroso a tornare a Inveruno, anche grazie all'intervento di uno sconosciuto ferroviere, che lo aveva salvato a Firenze dall'arresto e dal conseguente invio nei campi di concentramento tedeschi. A Inveruno il ritorno in famiglia è stato però di breve durata perché, insieme a un gruppo di altri giovani, mio fratello decise di andare in montagna in una baita sopra Intra, in località Ungiasca». Comincia così anche per Giuseppina la resistenza attiva, fatta di tanta determinazione, coraggio e anche, come lei stessa sottolinea, «un pizzico di incoscienza». Ai giovani in montagna manca tutto e bisogna sostenerli in tutti i modi possibili. Così Giuseppina, quasi ogni sabato, prende le Ferrovie Nord con destinazione Laveno: «A Saronno mi incontravo con un'altra staffetta, l'amica Antonietta Chiodini, sorella di un altro partigiano, e insieme raggiungevamo Laveno. Poi prendevamo il traghetto per Intra dove spesso ad attenderci c'erano i fascisti che presidiano la zona, ma per fortuna anche alcuni fiancheggiatori dei partigiani che segnalavano alle staffette se la via era libera. Con noi avevamo borse ricolme dei necessari rifornimenti alimentari, ma quello che più era rischioso da trasportare era l'equipaggiamento di armi e munizioni per sostenere la resistenza armata». Giuseppina contava sul suo sangue freddo, sul «fascino femminile» e la determinazione.

Così ricorda quei momenti: «Avevo un cappotto di loden che era una meraviglia e mi ero fatta fare delle tasche enormi ben mascherate. Lì dentro ci mettevo le pistole e le munizioni. Ma una volta superato l'imbarcadero di Intra occorrevano ancora parecchie ore di cammino per raggiungere i partigiani che, nel frattempo, avevano fatto base a Fiancavano. Un viaggio estenuante e pericoloso». Un viaggio raccontato con la sconcertante naturalezza di una giovane donna che, poco più che ventenne, «aveva preso coscienza degli enormi danni morali e materiali che la dittatura fascista stava portando alla nazione».

Giuseppina prosegue il racconto a Polis Legnano: «Percepivo che mio fratello e tanti altri giovani stavano lottando per la libertà e si preparavano a divenire la futura classe dirigente del Paese». Il suo ruolo presto cambia perché, da staffetta di montagna, passerà a "staffetta di piano", cioè di pianura, come lei stessa si definisce. Dalle sue mani ricorda che «sono passati molto probabilmente ordini o disposizioni che hanno inciso sulla resistenza». «Portavo gli ordini a importanti personaggi del Comitato di liberazione nazionale -spiega - e così non mancavano gli incontri con Cefis e con altri capi della resistenza».

[7] In secca, asciutto, senz’acqua

[8] Tratto da http://www.anpilegnano.it/giuseppinamarcora.htm

Emerge nelle parole di Giuseppina il profondo legame che la legherà per l'intera vita al più noto fratello Giovanni, partigiano, poi dirigente democristiano, senatore, a lungo ministro della Repubblica. Un'unione inseparabile favorita dalla precoce morte della mamma, scomparsa subito dopo la nascita dell'ultimo fratellino Andrea: «Giovanni partecipava alle adunanze di Azione cattolica, tenute da don Giuseppe Albeni, che si svolgevano nell'oratorio di Cuggiono. Don Giuseppe era un convinto antifascista e sarà le sua attività formativa a portare molti giovani alla scelta di combattere la dittatura. Mio fratello divenne un capo militare delle formazioni cattoliche. Era un uomo di spicco della divisione "Alto Milanese" e in seguito assumerà il ruolo di vicecomandante del Raggruppamento Patrioti "Alfredo Di Dio", al cui comando sarà nominato Eugenio Cefis, un altro personaggio che farà la storia d'Italia nell'immediato dopoguerra».

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